cinema

L’identità e la percezione del sé sono influenzate e modellate da innumerevoli
variabili, ma soprattutto per una larga parte di umanità, dai media di massa,
che nell’ultimo decennio hanno anche prodotto l’accelerazione della connessione
interattiva globale con i social network, ingigantendo i bias di conferma.
Tra tutte queste variabili c’è anche il cinema, che è a sua volta
un universo estremamente complesso, fluido e tracimante di stimoli.
Ma non è sempre stato così e una sua particolare componente si perpetua ancora
oggi e in maniera asintoticamente perfezionata e immune dalla caotica
complessità: i generi.

Il cinema è nato come variante tecnologica di intrattenimento da fiera, o da
circo, è l’evoluzione di innumerevoli esperimenti per dar vita a immagini fisse
che si è poi evoluto fino a catturare immagini dal vero e animarle. Stratagemmi
per intrattenere in modo nuovo ed estemporaneo spettatori desiderosi di
meraviglia. Il cinema di Meliés e dei fratelli Lumiere è quello: spettacoli di
magia che approfittano del montaggio per mostrare illusioni impossibili e treni
che entrano in sala.

Poi, in una lenta e articolata evoluzione che ha innestato intrattenimento
escapista a narrazione teatrale, è arrivato a condensarsi in una forma di
narrazione sempre più precisa, sempre più strutturata, sempre più formulaica.
Dall’alba dei tempi gli scrittori erano consapevoli che certe costellazioni di
regole, argomenti, caratteri, luoghi e azioni fossero esche di attenzione
migliori. E così le hanno applicate al medium cinema. Ma dato che produrre un
film è molto più costoso che scrivere un romanzo, si sono concentrati sul
formulaico più puro, distillando i generi. Narrazioni con caratteristiche
precise che stimolano precisi desideri e precise emozioni e di conseguenza si
rivolgono a uno specifico pubblico. Dividere e conquistare. Tanti film, tanto
pubblico, tante bolle di interesse da creare per nutrire un mercato crescente.

Ma nel farlo hanno inevitabilmente riversato nelle loro storie il loro sentire,
il loro paesaggio culturale interiore, a volte volontariamente, spesso del
tutto inconsapevolmente. E laddove questo paesaggio non è stato esplicitato
didascalicamente, si è propagato sottotraccia, entrando dalla porta di servizio
del sentire globale, diffondendo in maniera subliminale una specifica sintassi
relazionale col mondo a tutto il mondo.
Un virus normalizzante diffuso senza alcun controllo.

Se consideriamo il fatto che il cinema più popolare e conosciuto nel mondo
occidentale sia quello nordamericano e prendiamo atto del fatto oggettivo che è
stato fondato da una specifica e ristretta categoria di persone – maschi,
bianchi, colti, di retaggio ebraico – risulta evidente quanto la cultura
patriarcale abbia fortemente disegnato l’umanità rappresentata e quanto questa
fosse compatibile con l’altra maggiore fede monoteista nel modo di pensare la
donna. E’ successo per caso, non c’era un progetto, non si sono accordati gli
appartenenti a una certa categoria umana per farlo. E’ semplicemente successo.
E non ha trovato alcuna resistenza, perché gli umani a cui si è rivolto erano
già in larga parte così. Era perfettamente normale.
L’Origine della Specie, per dire, quasi coeva del cinema, con il suo deicidio
subiva la più agguerrita resistenza e irrisione.
L’emulazione per gioco del “verbo divino” esperito in quello spazio liminale
che è la fruizione di un film ha fatto riverberare abitudini già presenti nel
quotidiano come “giocare alla mamma” e “giocare al cowboy”. Il film è un
medium, sta nel mezzo, è uno spazio mentale analogo a quello rituale durante il
quale si viene posseduti dalle divinità, o dagli antenati e a loro si delegano
le scelte della propria vita.

Questa inclinazione ha raggiunto il massimo della propria espressione negli
anni ’50, con un’iconografia talmente forte da produrre persino subculture
extratemporali come quella rockabilly: persone che insistono a vivere come se
fossero in un film anni ’50. Poi alla fine degli anni ’60, come qualsiasi altra
istanza, il cinema mainstream è stato messo in discussione dalle controculture,
sostituendo temporaneamente la produzione verticale-industriale con quella
orizzontale della distribuzione indipendente, di film realizzati per esprimere
una visione di mondo alternativa, non per fare soldi.

Ma al di là di uno split che ha fatto germogliare il variopinto panorama che
abbiamo oggi, le aiuole e gli orti dei generi hanno continuato a prosperare,
estesi ben oltre il solo rapporto di sudditanza uomo-donna, producendo frutti
semplici, facilmente digeribili, e in molti casi dopati, nel senso proprio di
dopamina. Solidificare le formule dei generi su principi e regole sociali
considerate buone e giuste dal pensiero egemone e avvolgerle con meccanismi
narrativi innescanti sensazioni positive. Ed esportarle ovunque e con le
opportune aromatizzazioni preferite dagli avventori. Comprate la felicità. E’
bello essere bravi, buoni e approvati dalla maggioranza.

L’astrologia prospera solo nel determinismo, non troverete mai un oroscopo che
si rivolge a un segno zodiacale che ha risolto e superato i limiti tipici del
proprio tema astrale, perché se lo superasse, romperebbe il determinismo, non
sarebbe più prevedibile, non sarebbe più controllabile.
La narrazione di genere distorta dal bias religioso ha costruito per decenni un
cinema deterministico il cui potere di convinzione è stato consapevolmente
usato per disegnare una società secondo i criteri di un minoritario, ma
potente gruppo sociale. E vendere questi criteri avvolti da golosi dolciumi
emotivi ha fatto desiderare gli spettatori di averne ancora e di vivere in quel
modo. Abbinarlo a qualunque altro tratto identitario è stato il semplice e
remunerativo passo successivo. Chi è bravo e bello beve Coca Cola.

La percezione fenomenica del sé riflessa nel prossimo della propria bolla ha
così rafforzato le relazioni di identità modellate dai generi
. Generi al
quadrato. Come per gli slogan pubblicitari e politici, i generi sono puliti e
semplificati ed è facile e comodo riconoscervisi. E’ una narrazione familiare,
in cui ci si sente a casa, a proprio agio. I modelli di riferimento sono
action figures chiare e definite.

Se c’è dunque una sostanza cognitiva da tenere sotto osservazione e assumere
con cautela nel circoscritto ambito della fruizione di intrattenimento
cinematografico è il genere. Cioè quanto della propria identità si rispecchia,
o cerca di rispecchiarsi in un gusto delle cose che è pilotato da una ideologia
nata da un imprinting religioso e successivamente mutata in una strategia
psicologica laica che non ha alcun interesse per la persona, ma solo a
includere per arricchirsi.
Oggi il cinema è liquido, la tecnologia lo rende accessibile a chiunque, ed è
quindi formato da molecole spesso anche incompatibili tra loro, ma che hanno in
comune l’essere al di fuori dell’industria. Se c’è un luogo ideale da cui
attingere per uscire dalle proprie bolle e dalle proprie comfort zone di
identità anche solo parzialmente prefabbricate, è nel cinema indipendente,
fatto per esprimere, mostrare, divulgare, confrontare, aprire senza alcuna
agenda capitalista. Anche il cinema indipendente cerca di vendere idee di
mondo, me ne vende tantissime, tutte diverse e in reciproca dialettica, e
chiama lo spettatore ad agire attivamente, a immedesimarsi in tante vite
diverse e costruirsi una propria identità fatta di espansione e reinvenzione
continua. E’ una dieta variegata di prodotti tipici locali al posto di
buonissime merendine uguali in tutto il mondo.

Il problema antropologico dei generi cinematografici è che per loro intrinseca
natura sono basati sul dramma, sul conflitto, e dunque la visione hollywoodiana
della narrazione è sempre di competizione, una visione sportiva, maschia, in
cui se anche il protagonista è una donna, o una qualunque altra minoranza
umana, è lì per essere contro il suo opposto. Per vincere, per essere il
migliore, non per confrontarsi ed evolvere.
Ci sono tanti film di genere molto belli, basta tenere a mente che sono favole
e che quelle che si muovono sullo schermo sono marionette, che un invisibile
bambino gigante fa sbattere le une contro le altre.

Jan Alexander Corsini – ermenauta