Possiamo allenare anche i “muscoli” della resiliènza

In fisica con il termine resiliènza si intende la proprietà elastica di un materiale che, sottoposto a stress meccanico, assorbe energia e la restituisce ritornando il più rapidamente possibile alla propria forma iniziale; non è quindi sinonimo di resistenza perché non si oppone alle forze in gioco, ma le ammortizza grazie alle proprie capacità elastiche intrinseche.

Nell’ultimo decennio il termine è stato assimilato in ambiti differenti dove ha assunto estensioni varie: l’analogo in ambito psicologico fa riferimento alla capacità di adattamento di un soggetto a nuove condizioni e stimoli o di recuperare l’equilibrio in seguito ad un evento destabilizzante o traumatico.

La resiliènza psicologica è un costrutto multidimensionale complesso modulato da fattori biologici, psicologici e sociali integrati tra loro, dove i primi evidenziano il ruolo del patrimonio genetico, i secondi l’importanza delle relazioni sviluppate durante l’età evolutiva e i terzi diversi elementi tra i quali l’influenza del gruppo, della cultura, delle tradizioni, degli apprendimenti e dell’etica. Siamo quindi caratterizzati da un corredo genetico di resiliènza che proviene dalla storia evolutiva della nostra specie e ci rende capaci di fare fronte efficacemente a difficoltà e avversità, tuttavia la resiliènza non è una capacità innata ma può essere appresa ed allenata, modulata e rafforzata attraverso l’impegno e l’esercizio costante.

La resiliènza non è una mera risposta passiva agli stressor ma è una risposta attiva, costruita ed elaborata consapevolmente dall’individuo passando per l’adattamento, la persistenza nel perseguire obiettivi sfidanti, la gestione efficace dei problemi, indispensabile per fronteggiare al meglio gli eventi negativi e superare le difficoltà, nonché la capacità di apprendere dagli errori per poi elaborare nuove strategie adattative e risolutive.

La resiliènza quindi non è solo alla base della gestione di eventi importanti o traumatici e con la nostra possibilità di far fronte per non soccombere o ammalarci ma è il presupposto per la gestione della quotidianità e l’espressione migliore di noi stessi, attraverso una buona performance.

La resiliènza si basa sulla motivazione intrinseca e sulla capacità di tenerla viva nonostante gli ostacoli, le difficoltà ed i fallimenti. Essa necessita di speranza nel potercela fare, fiducia in se stessi e ottimismo nel vedere gli aspetti negativi come parziali, momentanei e fonte di nuovo apprendimento; richiede consapevolezza di sé, delle proprie azioni, delle loro conseguenze sul contesto in cui si vive, sul quale si sceglie di incidere volontariamente in modo proattivo (sense of agency[1]); parte dal senso di responsabilità verso se stessi, verso il progetto (sia esso a tempo determinato o di vita) e verso chiunque ne faccia parte; prevede fermezza nel mantenere il focus sugli obiettivi, la coerenza con i principi fondanti e la costanza nel perseguirli; presuppone la capacità di gestire le emozioni e la frustrazione, di modulare le sensazioni corporee come la fatica ed il dolore, di adattarsi ai cambiamenti, cogliendo le sfide e i cambiamenti come opportunità e non come minacce da temere.

Impossibile? No, la resiliènza è una capacità umana non esclusiva di pochi eletti ma alla portata di tutti coloro che ne sappiano cogliere il valore e desiderino appropriarsene per evolvere attivamente in un percorso dinamico di crescita interiore continua. Certamente è più semplice affidarsi al fato, alla fortuna, alle stelle pensando che “la riuscita” sia frutto di un talento innato, di un corredo genetico prestabilito o di un destino segnato, ma questo non ci aiuterà ad aumentare la nostra probabilità di successo rendendoci attivi e propositivi ma piuttosto passivi, rassegnati e fatalisti, in attesa di un “miracolo dall’alto”.

Ma come apprendere ed allenare questa competenza se non con lo stesso “esperire la vita in corso”?

Ad oggi sono diversi gli strumenti e le strategie a nostra disposizione per fortificare questa competenza e promuovere l’empowerment nei differenti contesti sociali: in particolare gli studi di neuroscienze degli ultimi dieci anni hanno apportato un grande contributo in merito al funzionamento del cervello ed al suo ruolo nelle diverse attività, situazioni e interazioni. Da questi studi abbiamo intuito il fil rouge che unisce discipline come il thai chi chuan, taekwondo e lo yoga a pratiche come la meditazione, il training autogeno e la mindfulness ed il perché queste esperienze contribuiscano positivamente al controllo delle emozioni, alla gestione dello stress ed al miglioramento delle performance, siano esse in ambito scolastico, lavorativo, sportivo o altro. Questi studi ci hanno fatto inoltre intravedere il potenziale del placebo, del feedback e di tecnologie di nuova generazione come il neurofeedback, la realtà aumentata e quella virtuale.

Da sempre lo sport è metafora della vita in quanto opportunità di esperienze ad alta variabilità. Situazioni da un lato simili, per le quali possiamo allenare il corpo con strategie sempre più raffinate, ma dall’altro sempre differenti, per le quali è necessario allenare la mente, a dimostrazione – ancora una volta – che siamo un tutt’uno inscindibile dove l’intero sistema è gestito in modo molto complesso ed in parte ancora a noi sconosciuto dal cervello.

Inevitabile quindi il superamento di una visione meccanicistica che incentrava l’allenamento prettamente sulla “macchina corpo”, a favore di una visione sistemica complessa, dove la performance sportiva dipende da un allenamento equilibrato di corpo-cervello dove il primo declina col trascorrere del tempo mentre il secondo evolve implementando costantemente le proprie competenze come attenzione, concentrazione, etc.

Proprio la concentrazione è uno dei fattori capace di modificare la percezione della fatica di un atleta durante la propria performance. Fatica e Resiliènza sono quindi due facce della stessa medaglia.

La fatica è quindi un elemento cardine per potere parlare di resiliènza, ma che cos’è esattamente la fatica? Cos’è quella sensazione sgradevole di spossatezza che ci impedisce di proseguire nello sforzo, di concludere la gara e ci porta a rinunciare al raggiungimento dell’obiettivo prefissato ed alle conseguenti soddisfazioni?

Inizialmente, grazie al contributo del fisiologo inglese Archibald Vivian Hill, si pensava che il concetto di fatica ruotasse attorno all’incapacità dell’organismo di fornire ossigeno ai muscoli, con conseguente produzione ed accumulo di acido lattico, impedendo così la contrazione ed il movimento. Successivamente, il fisiologo Angelo Mosso ha apportato un contributo importante che ha dato inizio ad un nuovo filone teorico evoluzionistico che interpreta la fatica come un sistema di protezione e difesa dell’organismo da parte del sistema nervoso centrale che, così facendo, ci impedirebbe di spingerci oltre le nostre capacità fisiche reali, evento che porterebbe a infortunio, danno e anche morte. Molti gli studi che hanno supportato questa teoria nel tempo, sino alle implementazioni più recenti di Samuele Marcora sul sistema anticipatorio di feedforward e di Guillaume Millet che studia il sistema di feedback e le determinanti biomeccaniche e neurofisiologiche della fatica, illustrate con chiarezza nel libro di Blaise Dubois dal titolo “La Salute nella Corsa” edito da Mulatero Editori.

La percezione della fatica è frutto di un sistema complesso di difesa che coinvolge processi metabolici, neurofisiologici e psicobiologici a cui concorrono le nostre condizioni fisiche e psicologiche così come le nostre esperienze pregresse e le nostre convinzioni presenti. La fatica fisica e quella mentale si influenzano bidirezionalmente: un lavoro del 2020 su “Medicine & Science in Sport & Exercise” dimostra come una prestazione cognitiva possa influenzare negativamente la prestazione atletica professionale così come un articolo su “Current Biology” ha dimostrato che dopo un intenso esercizio fisico gli atleti sono più impulsivi e meno capaci di inibizione di determinate aree corticali. Sia la fatica mentale che quella fisica producono una minor attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) con conseguente minor capacità di analisi, controllo e inibizione, nonché maggior propensione all’impulsività e al rischio.

Qui il nocciolo della questione: per migliorare la propria performance è necessario modificare la propria percezione della fatica, allenando così la propria tolleranza allo sforzo e la resiliènza individuale.

Per raggiungere questo obiettivo si possono utilizzare diverse strategie capaci di influenzare i circuiti neuronali che sottostanno alla percezione della fatica, ai processi motivazionali, della perseveranza e della autoefficacia, permettendoci così di avvicinarci al reale limite fisico, oltre i sistemi di difesa. Tra questi il potenziamento della funzione di controllo inibitorio, ovvero della capacità del cervello di selezionare le informazioni rilevanti da quelle distraenti, mantenendo la massima attenzione e concentrazione sul target. Un’altra strategia è il reappraisal, ovvero la “rivalutazione cognitiva” della situazione specifica che provoca ansia e stress, analizzandola oggettivamente, dando valore agli aspetti positivi, smorzando i pensieri negativi e promuovendo motivazione e perseveranza tramite, ad esempio il “self talk”. Fondamentale anche la gestione emotiva, altro aspetto che modula la prestazione fisica attraverso l’attivazione della corteccia prefrontale ventrolaterale, a insula, il talamo e la corteccia cingolata anteriore che, coinvolta nel controllo motorio, in quello inibitorio, nella percezione dello sforzo e dell’effort-based decision making, aumenta anche la perseveranza. L’inibizione degli stimoli superflui, spesso confondenti e infestanti la prestazione specifica e la razionalizzazione degli stimoli, favoriscono il processo di valutazione dei costi-benefici sul piano fisico e psicologico che si basa sul circuito dopaminergico e degli oppioidi endogeni della ricompensa: un sistema motivazionale che riferisce all’area supplementare, a quella del cingolo, alla corteccia prefrontale dorsolaterale e allo striato dei gangli della base, come dimostrato dai recenti studi di neuroscienze di Matthias Pessiglione.

In parole semplici possiamo “ingannare” il cervello tramite strategie specifiche quali tecniche psicologiche, informazioni placebo, illusioni percettive e motorie, manipolazioni visive e uditive o anche con le tecniche più recenti quali la stimolazione transcranica a corrente continua e realtà virtuale: allenare mente e corpo attraverso esperienze vissute (reali o virtuali) al fine di migliorare resistenza fisica e resiliènza mentale, passando per l’ascolto e la scoperta di sé e l’implementazione di competenze quali vigilanza, attenzione, concentrazione, perseveranza, motivazione e autoefficacia.

Nel libro “Tecniche di resistenza interiore. Come sopravvivere alla crisi della nostra società” edito da Mondadori, lo psicologo Pietro Trabucchi indica svariate strategie psicologiche per allenare la resiliènza, tra le quali:

– interpretare il disagio fisico come parte integrante dell’esperienza e del gioco e fase della gara;

– scegliere di coltivare i pensieri positivi e non quelli negativi, infestanti, distruttivi e demotivanti;

– intercettare i meccanismi di auto-sabotaggio senza cadere nel pessimismo, forti che i momenti negativi hanno un termine e consapevoli che i nostri comportamenti si modellano sulle convinzioni e sulle credenze;

– indagare la propria motivazione e ciò che la limita per potersi superare;

– utilizzare strategie di self talk ed auto-aiuto come dividere i grandi obiettivi in micro obiettivi, spaziali o temporali che siano;

– affidarci alle nostre capacità di controllo e non alla fortuna o al fato;

– mantenere una visione complessiva di noi stessi sulla quale basare l’autovalutazione e l’autostima, tenendo conto dell’insieme delle competenze e non di una singola capacità in cui potremmo non essere bravi o avere fallito;

– essere consapevoli delle proprie risorse, capacità e risultati raggiunti;

– riconoscersi il merito senza sminuirlo per promuovere i circuiti dopaminergici della gratificazione e della ricompensa che migliorano attenzione e concentrazione, alimentano volontà e perseveranza, mantengono motivazione e attivano i pattern comportamentali della resiliènza.

Essendo il nostro sistema mente-corpo un tutt’uno ed essendo l’esperienza l’elemento fondante del funzionamento del nostro sistema cerebrale predittivo che pianifica il futuro imminente sulla base delle esperienze pregresse, possiamo affermare che ogni forma di apprendimento esperita nel contesto sportivo contribuirà inevitabilmente alla strutturazione di strumenti utili alla vita, tra i quali la resiliènza.


[1] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5002400/