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Pregiudizio deriva dal latino prae- prima e iudicium giudizio, ossia giudicare prima, fare una sentenza anticipata. Discostandosi dal terreno giuridico nel quale nasce e portandoci nel linguaggio psicologico, il pregiudizio è: “un atteggiamento di ostilità o di rifiuto verso un gruppo nel suo insieme o verso un individuo appartenente a quel gruppo”.
Non si può parlare, senza comprenderlo fino in fondo, di pregiudizio senza coinvolgere i termini: stereotipo e discriminazione.
Il pregiudizio infatti nasce da uno stereotipo e spesso può sfociare in una discriminazione. Ma perché esistono gli stereotipi? La formazione di categorie dentro le quali “rinchiudere” i vari elementi del mondo, è una caratteristica e una necessità della mente umana, è un modo per risparmiare energie. Nella vita di tutti i giorni infatti siamo tempestati da stimoli di ogni tipo che non possiamo permetterci di processare integralmente, ecco che la mente prese alcune caratteristiche di un oggetto che abbiamo di fronte, lo etichetta come la: “tal cosa” rinchiudendolo in una categoria già presente in memoria e definita da quelle caratteristiche che abbiamo processato e da altre che invece non abbiamo riscontrato nel nostro oggetto e che potrebbero esserci come non esserci.
La frequenza con la quale associamo alcune caratteristiche percepite, ad altre non percepite, e il contesto culturale in cui viviamo, danno un altro contributo alla formazione dello stereotipo.
Anche quando incontriamo una persona facciamo lo stesso processo e ci affidiamo ad alcune caratteristiche immediatamente percepibili: colore nero della pelle, con altre che non abbiamo riscontrato e verificato: immigrato, violento e che magari sono frequentemente messe in associazione dai mass media o dalle persone che ci circondano.
I pregiudizi sono molto maggiori nei confronti di persone che appartengono ad un gruppo diverso dal nostro e questo per l’insita e primordiale necessità di difendere la propria identità, la propria comunità e l’immagine ad esse associata. La categorizzazione rapida infatti può essere utile in uno stato emergenziale, in cui dobbiamo decidere in fretta se chi ci sta di fronte è un pericolo e quindi mettere in atto un comportamento di fuga o lotta, oppure non presenta una minaccia per noi e il nostro gruppo.

È quando percepiamo l’altro come una minaccia che il nostro pregiudizio può sfociare in discriminazione, talvolta anche molto violenta. Si badi bene che la minaccia a cui si fa riferimento non è solo una minaccia di aggressione fisica, ma può essere anche una minaccia al nostro status sociale, al possesso di privilegi presenti da tempo, alla situazione economica, alla fede religiosa e calcistica.

Ma se la formazione di stereotipi e il conseguente pregiudizio sono processi automatici e caratteristici della mente umana, come possiamo difenderci?
Il primo passo è riconoscerli, sapere che esistono e che si formano in noi ma che spesso sono falsi, determinati dal contesto in cui viviamo, a volte subdoli, non sempre vestiti di cattiveria e consapevolezza e che sono frutto dell’ignoranza, nel senso stretto del termine ossia: la mancanza di conoscenza.
Il secondo passo è proprio questo: conoscere! Più si conosce l’altro e si prova ad immedesimarsi nel suo punto di vista e più è difficile che si formino dei pregiudizi nei suoi confronti o che comunque questi passino inosservati dentro di noi. Avere dei pregiudizi e saperli riconoscere li neutralizza, perché si agisce conseguentemente in modo da non affidarsi alle conclusioni parziali e fallacie che si sono formate nella nostra mente.

Tra i tanti stereotipi e pregiudizi presenti nella nostra società vi sono quelli tra donne e STEM (dall’acronimo inglese scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Un esempio è il “Matilda effect”, descritto dalla storica della scienza Margaret W. Rossiter nel 1993, che definisce il fenomeno per il quale i contributi delle donne alla ricerca scientifica vengono sminuiti, attribuendoli in parte o totalmente a uomini. È rappresentato da due fenomeni: da un lato vi è la tendenza a citare maggiormente articoli scientifici i cui autori sono di sesso maschile rispetto a studi, di pari qualità, scritti da donne. Il numero inferiore di citazioni penalizza il lavoro delle scienziate rendendo meno visibili i lori studi alla comunità e alimentando il circolo vizioso che vede sempre più uomini pubblicare, ottenere riconoscimenti e progredire con la carriera. Dall’altro lato vi è l’attribuzione del lavoro di una donna ad un collega uomo, un esempio su tutti è quello delle scoperte sulla struttura del DNA fatte da Rosalind Franklin che valsero il Premio Nobel ai suoi tre colleghi uomini Francis Crick, Maurice Wilkins e James Dewey Watson. Il lavoro di Franklin, che diede un contributo fondamentale per la scoperta della struttura del DNA non ottenne alcun riconoscimento, venne anzi descritta dai colleghi come la “la terribile e bisbetica Rosy”, rendendo ancor più marginale il suo ruolo di scienziata e facendola apparire quasi come un fastidioso ostacolo al lavoro. Dagli studi di Rossiter emerge anche una forte segregazione gerarchica nell’ambiente scientifico, un fenomeno per il quale il numero di presenze femminili si riduce all’aumentare del grado di potere e responsabilità.

Secondo i dati dell’UNESCO nel 2017 meno del 30% dei ricercatori nel mondo erano donne. In Italia non va meglio, dove scienziati o ingegneri uomini sono il 68,29% contro il 31,71% delle donne. 

Ma da dove nascono questi stereotipi e le difficoltà che le donne incontrano quando intraprendono una carriera scientifica? 

Durante i primi anni di vita, quando il cervello è più plastico, bambine e bambini tendono ad essere altamente influenzati dall’ambiente esterno, anche per quanto riguarda i meccanismi di studio, apprendimento e attitudine.  Spesso si sente dire: “i bambini sono più bravi in matematica e scienze, le bambine in materie umanistiche” o “scienza ed ingegneria sono settori maschili”. Una bambina tenderà quindi a non sentirsi portata per le materie scientifiche, spesso non prendendo neanche in considerazione l’idea di provarci. Questo stereotipo viene reiterato inconsapevolmente nella vita di tutti i giorni. Perché ad un bambino si dice “ma che forte che sei” e ad una bambina “ma come sei bella”? Perché ai maschietti vengono regalate le costruzioni e alle bambine le bambole? 

Allo stesso modo anche la scarsità di modelli femminili in ambito STEM influenza le scelte di carriera di molte ragazze, che sentono la mancanza di riferimenti a cui ispirarsi negli ambiti STEM. Un dato negativo arriva anche dal mondo dell’informazione dove la maggior parte degli esperti che compaiono in tv e nei giornali sono di sesso maschile. 

Negli ultimi 40 anni il numero di ragazze iscritte all’Università è aumentato esponenzialmente, ma nei corsi STEM le ragazze sono ancora molto meno dei pari età maschi, soprattutto in facoltà come informatica e ingegneria, dove le donne a laurearsi sono il 24% e il 21% rispettivamente.

In uno studio condotto tra gli adolescenti italiani solo il 5% delle ragazze, guardando al futuro, si vede occupare posizioni legate all’informatica o all’ingegneria, contro il 20% dei coetanei maschi. 

Ma non esistono materie “maschili” e materie “femminili”, sono i condizionamenti della società che influenzano le scelte dei giovani verso l’una o l’altra parte. 

Negli ultimi anni grazie all’impegno di molte scienziate si sta cercando di recuperare questo gap. Si affrontano le scienze in modo inclusivo, prestando attenzione a non trasmettere stereotipi di genere ma affrontandoli con consapevolezza, spiegando a ragazze, ragazzi e genitori che questi pregiudizi esistono e mostrando loro la varietà delle possibili carriere in ambito scientifico. Facendo conoscere a bambine e bambini la numerosità e la diversità delle persone che lavorano e hanno lavorato in ambito STEM si dà la possibilità a tutti di avere punti di riferimento concreti. Ben venga quindi anche alle “Cenerentola” che sopra al vestito da ballo indossano camice e guanti, perché una bambina può essere sia principessa che scienziata se lo vuole.
Tutti noi, nella quotidianità, possiamo dare il nostro contributo alla demolizione di questi stereotipi infondati e dannosi diventando innanzitutto consapevoli della presenza in noi di associazioni e categorizzazioni implicite in questo ambito.In psicologia esistono diversi test per valutare la presenza di determinati stereotipi che spesso non sappiamo o pensiamo di non avere.
Un test semplice, veloce, valido e affidabile che valuta la presenza di stereotipi impliciti è lo IAT (Implicit-association Test / Test di associazione implicita). Questo test si basa sulla velocità con la quale categorizziamo alcuni elementi che ci vengono presentati sullo schermo. Il risultato del test non deve essere interpretato come un giudizio morale sulla persona che lo esegue ma piuttosto come un modo per divenire consapevoli di un funzionamento automatico del proprio cervello e prestare quindi maggiore attenzione alle associazioni e alle conclusioni che traiamo nella vita di tutti i giorni.
Di seguito vi proponiamo lo IAT costruito da alcuni ricercatori di “Project Implicit”. Tra i vari argomenti disponibili vi è quello che indaga lo stereotipo donna e scienza, tema centrale del presente articolo.
Se avete voglia di indagare, in voi, la presenza o meno di associazioni implicite che vedono la donna come adatta alle materie umanistiche e l’uomo alle scienze, completate il test “Genere – Scienza” al seguente link: https://implicit.harvard.edu/implicit/italy/.
Ricordatevi che il primo passo per evitare stereotipi, pregiudizi e discriminazioni è essere consapevoli di quello che accade implicitamente nelle nostre menti.

Beatrice Uguagliati e Gianpaolo Lucato