“Scrivo la mia storia perché questo dolore accumulato negli anni io non so più dove metterlo. Scrivo per restituire ordine al mio percorso, per rimettere insieme i pezzi che la sofferenza ha brutalmente ridotto in frantumi e poi disperso in vari studi medici, su tanti lettini, in diagnosi, esami, referti, sedute psicoterapiche, tamponi. Ora, li riprendo tutti e li ricompongo”.

È una “storia che non si dice”, quella di Bruna. Ed è per questo che l’ha voluta dire a tutti: ad un numero indeterminato di dottori, ai farmacisti di mezza Bologna, ad amici e amiche. Persino alla commessa che le voleva vendere dei jeans, che ovviamente aveva comprato anche lei, e al barista che non le voleva dare le chiavi del bagno. E poi, per prima in Italia, in un libro “Nonostante, libera. Il racconto come atto terapeutico” (Giraldi Editore, 2018), un racconto autobiografico scritto come un diario privato. 

Bruna da dieci anni soffre di Vulvodinia, una neuropatia localizzata alla vulva. In altre parole un’alterazione funzionale di muscoli e nervi che porta bruciore, sensazione di punture di spillo, aghi, scariche elettriche e in alcuni casi sintomi urinari. Ma il disturbo, è “invisibile”. Ad esserne colpite si stima siano circa quattro milioni di donne in Italia, ma ancora è poco conosciuta dagli spessi specialisti e confusa spesso con altre patologie. 

Bruna non ricorda esattamente quando sia iniziata questa storia. Seduta al tavolo della cucina, cerca di ripercorrerla all’indietro, sfogliando pile e pile di raccoglitori. “Da bambina, di tutti gli istituti scolastici che ho frequentato, ricordo i bagni – racconta -. Mia madre, preoccupata dalla frequenza delle minzioni, prenotava visite su visite. Alla soglia dei 30 anni ero consapevole di avere una vescica più sensibile delle altre”.

Un giorno nella sala d’attesa di un consultorio dove era andata per una visita ginecologica di routine trova un questionario che suggeriva di prenotare una visita urologica qualora anche solo una risposta fosse stata affermativa. Quattro sì, tre no. “Fissai subito un appuntamento, a cui seguì una citoscopia. Poi arrivarono febbre, brividi, dolori, sanguinamento. Ma nulla, era stato tutto eseguito nella norma ed era tutto regolare, secondo il medico”.

Alcuni mesi dopo quell’esame Bruna si sentì nuovamente male. Una mattina mentre era in auto con il suo compagno avvertì un dolore lancinante. Si fermarono e poi ancora e ancora per una decina di volte nel tragitto tra Imola e Bologna. Bruna doveva urinare. “Era un corpo impazzito, il mio, su cui mi sembrava di non avere più alcun controllo”.

I mesi successivi furono atroci. Bruna iniziò a dormire tre ore a notte, urinava fino a quaranta volte al giorno. Qualunque contatto fisico allertava i suoi nervi, anche la stessa biancheria intima. “Avevo la percezione che il corpo fosse invaso da urina, come una emorragia senza sosta ma per la quale non capivo quale fosse la via di ingresso”.

Con il tempo smise di guidare, andare in piscina, al cinema, a teatro, fare il bagno in mare, andare in bicicletta. In auto poteva viaggiare solo sdraiata. Perse tutto, persino il lavoro, obbligata a lasciarlo.

In contemporanea i costi per le cure aumentavano. Tra farmaci ed integratori antineuropatici, antidolorifici, miorilassanti, farmaci per applicazione locale, omeopatici, agopuntura e attività come lo yoga, se ne andava uno stipendio part-time.

La vulvodinia limita molto o rende impossibili, tra le altre cose, anche i rapporti sessuali. “Per un periodo io e mio marito guardavamo una serie tv in cui i protagonisti facevano spesso sesso e io piangevo. Quando loro finivano, fumavamo una sigaretta tanta era l’eccitazione. Ero stremata come se l’avessimo fatto noi”.

Iniziò un lungo peregrinare di medico in medico, di lettino in lettino, di tampone in tampone. Le donne impiegano anni per ottenere una diagnosi. “Alla fine mi liquidavano con una sola frase: Il problema è nella tua testa! convincendomi che fosse solo una suggestione. Ho cercato di dirmi che era tutta una mia invenzione, ma niente. Mi sembrava che la mia vulva mi desse morsi continui. Nel tempo entrai in quella che chiamano cybercondria. Digitavo sintomi, leggevo storie di altre donne, cercavo compulsivamente una soluzione”. 

Dormire era diventato un modo per anestetizzare il dolore. “Non lo nego, a volte ho sperato che il sonno diventasse sempre più  lungo. È strano dirlo ma almeno chi aveva una diagnosi aveva qualcosa contro cui lottare, io no. Era il mio stesso corpo a rivoltarsi contro di me. Io ero diventata la mia malattia”.

Non escludeva una matrice psicologica, chiaro. Ma non poteva essere l’unico motivo. 

“Mi ero chiesta tante volte se c’entrasse l’amore in un disturbo che mi impedisce di poter fare l’amore con la persona che amo, la paura di lasciarmi andare e quindi di poter soffrire nuovamente. Sì, l’amore mi faceva paura e ne esercitavo un potente autocontrollo ma non poteva essere sufficiente a spiegare tutto”.

“La vulvodinia è un disturbo del corpo, su cui agiscono, come per tante alterazioni funzionali, diversi fattori come emozioni, stress, ormoni, clima, mi spiegò il professore Francesco Pesce, specialista in urologia e neurologia. Fu lui poi a farmi lo swab test o test del cotton fioc, l’unico esame utile per diagnosticare il disturbo, indirizzato alla ricerca di una ipersensibilità vulvare. I nervi della mia vulva mandavano al cervello una percezione del dolore eccessiva, che solitamente non si avverte. Quel dottore dette finalmente un nome al mio dolore, vulvodinia. E mi disse: ce la faremo”.

Oggi Bruna sta molto meglio, anche se non è ancora guarita. Dal 2010 a sostenere le donne in questo percorso e sensibilizzare su questo disturbo ancora poco conosciuto c’è anche l’associazione VulvodiniaPuntoInfo ONLUS, che ha istituito per l’11 novembre la Giornata Internazionale della Vulvodinia. A loro Bruna ha deciso di devolvere una percentuale delle vendite del suo libro. 

La solitudine nella sofferenza è uno degli aspetti più forti della vulvodinia. Non solo a livello di relazione medico-paziente, ma anche sentimentale. Molte donne vengono lasciate o sono impossibilitate ad avere una relazione. Per lei è stato diverso e oggi Bruna ha una bambina di sei anni. Quando il suo disturbo sembrava volerla fermare, la vita è ricominciata davvero. “Ho capito che l’unica cosa che ha senso –  dice – è vivere senza rimandare.